giovedì 28 Novembre 2024

“Studio Ambrosetti” – Mercato del Lavoro: Analisi e Prospettive – di Antonio Foccillo, Segretario Confederale UIL

foccilloSommario

(Premessa; 1. L’occupazione; 2. La “generazione Neet”; 3. Le politiche di austerità contro il lavoro; 4. Le cause del lavoro precario; 5. Cambiare rotta; 6. La riforma degli ammortizzatori sociali; 7. Il Mercato del Lavoro, oggi ; 8. L’attualità e proposte)

Premessa

Parlare di mercato del lavoro, senza riflettere sulle questioni economiche e finanziarie che lo hanno condizionato, non è possibile. Infatti, negli ultimi decenni, i Paesi dell’OCSE hanno subito significativi cambiamenti strutturali derivanti dalla loro più stretta integrazione in un’economia globale e il rapido progresso tecnologico. Questi cambiamenti, infatti, hanno influenzato sia il modo in cui sono distribuiti i redditi da lavoro, sia la composizione del mercato del lavoro. In questo periodo la maggior parte dei paesi dell’OCSE ha effettuato riforme normative che, per rafforzare la concorrenza nei mercati dei beni e dei servizi associati e rendere i mercati del lavoro più flessibili, hanno inciso profondamente sui diritti dei lavoratori. La stessa legislazione sulla tutela dell’occupazione per i lavoratori con contratti temporanei è diventata anche meno protettiva in molti paesi Ocse, dove i salari minimi hanno sostituito, come riferimento, i salari medi e sono stati cambiati anche i meccanismi per la fissazione dei salari.

Pertanto, lo sfruttamento materiale e immateriale del lavoro precario e flessibile è stato sempre più utilizzato continua a produrre globalmente diseguaglianze sociali sempre più divaricate e impoverimenti generalizzati sempre più estesi. Nel corso dei due decenni, nella grande maggioranza dei paesi OCSE, il reddito disponibile delle famiglie è aumentato in media dell’1,7% all’anno, questo perchè, i redditi del 10% delle famiglie più ricche sono cresciuti più rapidamente rispetto a quelli delle famiglie più povere, portando ad ampliare la disuguaglianza del reddito. Gli incrementi di disuguaglianza del reddito familiare sono stati in gran parte determinati dai cambiamenti nella distribuzione dei salari e stipendi che rappresentano il 75% del reddito familiare di adulti in età lavorativa. Mentre dal punto di vista occupazionale nel nostro paese dalla seconda metà del 2012 la perdita di posti di lavoro ha segnato una accelerazione ed il tasso di disoccupazione è aumentato in modo esponenziale.

Purtroppo la vera globalizzazione degli anni ‘2000 è stata quella delle operazioni monetarie e finanziarie non certo quella degli scambi di beni e libera circolazione delle persone. La stessa integrazione tra i paesi dell’Unione Europea ha permesso alle grandi imprese di trovare manodopera a basso costo all’interno del mercato europeo. Per “entrare” e restare nell’Europa del libero mercato dei capitali il prezzo pagato dalle popolazioni di quasi tutti i Paesi è stato ed è comunque troppo alto: aumento dei ritmi di lavoro, tagli ai salari reali, disoccupazione, lavoro precario, sottopagato, senza diritti, tagli allo stato sociale, aumento della povertà, emarginazione, peggioramento delle condizioni di vita.

In questo frangente la famiglia, è stata l’unico e più efficace ammortizzatore sociale, anche se questo compito solidaristico è stato coattivamente ridotto dalle ultime manovre di tagli, operate dai Governi italiani, sulla base delle direttive Ue, che hanno continuato nell’opera di restrizione e di austerity. Per completare il tutto, in nome della ripresa, si privatizza ciò che ancora non è stato privatizzato, con una soppressione massiccia di posti di lavoro (nell’istruzione, nella sanità, ecc.).

L’effetto è che, nel contesto della crisi, è solo la finanza a crescere.

Noi riteniamo che in questo scenario bisogna ridiscutere la politica dell’austerity che colpisce direttamente i salariati e i ceti medi e inferiori con tagli degli stipendi, riduzione delle prestazioni sociali, allungamento dell’età legale per la pensione, che significa concretamente la diminuzione del suo ammontare.

1. L’ occupazione

In Europa il piano per l’occupazione mira a creare più posti di lavoro e impieghi più qualificati in tutta l’UE, ispirandosi alla strategia Europa 2020 e prevede cinque straordinari obiettivi in materia di occupazione, innovazione, istruzione, integrazione sociale ed energia/clima, da raggiungere appunto entro il 2020.

Tuttavia non appare realistico incrementare i posti di lavoro aiutando studenti e apprendisti ad acquisire un’esperienza professionale in altri paesi e migliorando la qualità e attrattiva dell’istruzione e della formazione in Europa. Né tanto meno può essere efficace dare nuovo impulso alle riforme del mercato del lavoro, per aiutare le persone ad acquisire le competenze necessarie per le future professioni, creare nuovi posti di lavoro e rivedere il diritto del lavoro europeo.

Questi sono strumenti che facilitano la ricerca di posti di lavoro, quando questi esistono, ma certamente non li creano. Senza domanda che spinga imprenditoria ed industria a soddisfarla, senza programmi di grandi opere nazionali da mettere in cantiere, senza finanziamenti ai programmi di ricerca siamo destinati a rimanere nell’impasse attuale.

Più consistenti e realistiche appaiono invece quelle misure che, nell’aprile dell’anno scorso, la Commissione europea ha lanciato per favorire la creazione di posti di lavoro e che riguardano innanzitutto una riduzione delle imposte sul lavoro; l’uso in modo efficace gli incentivi all’assunzione ed infine sollecitare potenziali settori chiave, come l’economia verde, le ICT, la sanità e il settore assistenziale. Altrettanto positiva sembra essere l’intenzione di ripristinare le dinamiche del mercato del lavoro, utili soprattutto a sostenere i lavoratori quando cambiano lavoro o riprendono a lavorare dopo un periodo di inattività.

In Italia in tre anni è crollato di un milione il numero degli under 35 che lavorano, di cui 750 mila unità proprio nella fascia tra i 25 e i 34 anni. Nel secondo trimestre 2013 di quest’anno nella fascia tra i 25 e i 34 anni solo sei persone su 10 erano al lavoro. Una fascia d’età tradizionalmente attiva per eccellenza che oggi invece ha un tasso di occupazione al 60,1% contro il 70,1% del 2007 (65,9 nel 2010). Se per i maschi del Nord la situazione è ancora accettabile con l’81,4% al lavoro (dall’86,6% del secondo trimestre 2010) al Sud la situazione è drammatica con appena il 51% degli uomini della fascia 25-34 anni che lavora (e solo il 33,3% delle donne). L’imbuto per la generazione dei «giovani adulti» è dovuto in parte alla stretta sull’accesso alla pensione che ha tenuto al lavoro i più anziani (il tasso di occupazione nella fascia tra i 55 e i 64 anni è passato nel triennio considerato dal 36,6% al 42,1%), in parte alla crisi economica e al generale calo dell’occupazione nelle imprese private insieme al blocco del turn-over nella pubblica amministrazione che di fatto ha ridotto al lumicino le assunzioni nel pubblico. Il tasso di occupazione è calato soprattutto tra i giovani uomini del Sud (dal 60,5% al 51% con quasi 10 punti) mentre per al Nord il calo si è limitato a cinque punti (dall’86,6% all’81,4%). Per le giovani donne del Sud il calo percentuale è stato meno consistente partendo da un dato basso (dal 34,2% al 33,3%). Se si guarda al complesso degli under 35 il tasso di occupazione a livello nazionale risulta in calo dal 45,9% del secondo trimestre 2010 al 40,4% dello stesso periodo del 2013. Il tasso di disoccupazione nella fascia tra i 25 e i 34 anni è cresciuto dall’11,7% del secondo trimestre 2010 al 17,8% dello stesso periodo del 2013 con oltre sei punti in più. I disoccupati tra i giovani adulti sono passati da 670 mila a 935 mila. Al Sud il tasso di disoccupazione in questa fascia di età è ormai al 30% (molto simile tra uomini al 29,1% a donne al 31,5%) dal 20,6% di appena tre anni prima. Al Nord la disoccupazione tra i giovani adulti è passata dal 7,3% del secondo trimestre 2010 al 10,9%. [1]

Dati ancora più preoccupanti sono che sempre nel secondo trimestre 2013 sono stati attivati 2.511.847 rapporti di lavoro, circa il 10% meno, mentre i rapporti cessati sono stati 2.404.330, con un calo soprattutto nell’industria e nell’edilizia [2].

Il dato più evidente che può essere sottolineato, prima della crisi si avviavano al lavoro circa 12 milioni di contratti a fronte di uscite per 10 milioni, con saldi attivi, mentre dopo la crisi si è invertito il dato ed è modificata anche la qualità dei contratti.

Infatti, sempre nel secondo trimestre del 2013 si sono attivati il 69,3% di assunzioni con contratti a tempo determinato (1.741.748), il 15% a tempo indeterminato e il 5,9% con contratti di collaborazione. I rapporti di apprendistato sono pari al 2,7% del totale.[3]

2. La “generazione Neet”

Fra alcune figure nuove del mercato del lavoro, vogliamo ricordare l’aberrazione degli esodati (figura tipicamente italiana) che sono stati espulsi dal lavoro senza pensione, ed in particolare dei Neet, acronimo che sta per “non in education, employment or training”, nell’area dei cosiddetti paesi sviluppati e per effetto della crisi, sono i giovani che non studiano e non lavorano. Secondo i dati diffusi dall’Ocse (anche se nel 2014 sarà ancora peggio), sono circa 17 milioni: una parte, circa 10 milioni, ha anche rinunciato a cercare lavoro, mentre 6,7 milioni ancora sono alla ricerca di lavoro, una condizione preoccupante nelle dimensioni in cui si sta manifestando. Dall’inizio della crisi, oltre 3,5 milioni di giovani hanno perso il lavoro nell’area OCSE, ma questa cifra non tiene conto dei molti giovani che hanno concluso gli studi. E le prospettive, secondo l’OCSE, sono tutt’altro che rosee.

Infatti, per i giovani che lasceranno la scuola nei prossimi anni sarà più difficile trovare un lavoro rispetto ai coetanei delle generazioni precedenti.

In Italia, i “Neet” sono più di due milioni. Tanti, se si considera che equivalgono all’11,7% del totale.

L’Ocse consiglia di «rinforzare l’apprendistato e altre forme di training integrato per giovani con competenze di basso livello» e di «incoraggiare le aziende ad assumere i giovani, fornendo sussidi temporanei, in particolare per le piccole e medie imprese».

Il Rapporto OCSE ” Off to a Good Start? Jobs for Youth “, sostiene che i giovani hanno il doppio delle probabilità di rimanere disoccupati rispetto al lavoratore medio. E, sempre secondo il rapporto, sono pochi i governi che stanno facendo qualcosa per invertire questa tendenza.

Secondo l’OCSE i governi dovrebbero dare la priorità a politiche che, in altri paesi, hanno prodotto risultati efficienti in termini di rapporto costi-benefici. Sostenere i giovani più a rischio, in particolare quelli che hanno lasciato la scuola senza un diploma, i figli di famiglie immigrate o quelli che vivono in aree svantaggiate, è fondamentale. Danimarca, Paesi Bassi e Giappone sono presi ad esempio per l’adozione di programmi d’intervento precoce e misure efficaci a sostegno della ricerca di lavoro per differenti gruppi di giovani.

Ma nessun provvedimento è stato a tutt’oggi emanato né dal governo italiano né dall’Europa.

3. Le politiche di austerità contro il lavoro

Secondo le ultime stime OCSE, nei Paesi industrializzati, vi sono quasi cinquanta milioni di disoccupati, il livello più alto dal dopoguerra. Non è accettabile parlare, ancora, di eccessive ‘rigidità’ del mercato del lavoro, essendo ormai certificato anche dagli ultimi rapporti OCSE che un ventennio di politiche di ‘flessibilità del lavoro’ ha generato, in tutti i Paesi industrializzati, solo una consistente riduzione della quota dei salari sul PIL e non ha accresciuto l’occupazione. Proseguendo nella linea di ‘austerità’, si accredita la tesi che – ferma restando la ‘flessibilità’ del lavoro – la disoccupazione sia imputabile al modesto tasso di crescita delle economie dei Paesi industrializzati, e che, per far fronte al problema, siano necessarie politiche di riduzione della spesa pubblica a cui si aggiunge in Italia una riforma del cosiddetto “mercato del lavoro”.

Si tratta di una tesi che è stata ripetutamente smentita, anche sul piano teorico, da numerosi economisti, fra cui il Premio Nobel Paul Krugman [4] e la Lettera firmata da oltre duecento economisti contro le politiche di austerità in Europa.

In Italia la difficile situazione occupazionale rende necessario mettere all’ordine del giorno l’attuazione di un piano per il lavoro, a partire dall’emergenza della disoccupazione giovanile e femminile, particolarmente accentuata nel Mezzogiorno e dalla necessità di reimpiegare le centinaia di migliaia di lavoratori ancora coinvolti dagli ammortizzatori sociali. Si è creato, come tutti sappiamo, un mercato del lavoro a doppio binario, che è più comunemente definito con l’espressione “sistema duale” in cui convivono lavoratori con tutele e lavoratori privi o con scarsissime tutele. Da una parte, quindi, soggetti impiegati attraverso forme di lavoro “standard” (“lavoratori forti”), che godono di sufficienti tutele, anche grazie ad un sistema di ammortizzatori sociali che li sostiene nella fase di uscita dal mercato del lavoro e, dall’altra, una sempre più folta schiera di lavoratori atipici (“deboli”), per lo più giovani e con contratti temporanei, caratterizzati invece da un basso livello di tutele, spesso insufficienti, ed in molti casi strumenti di sostegno al reddito del tutto inesistenti.

Differenze notevoli caratterizzano, infatti, le grandi e le piccole imprese sia in materia di licenziamenti individuali che di sostegno al reddito, così come, altrettanto importanti, sono le differenze sia di trattamento economico che di tutele individuali tra un lavoratore a tempo determinato ed un collaboratore a progetto.

La progressiva espansione di questi fenomeni ha nel tempo realizzato un’involuzione del nostro mercato del lavoro, contribuendo a creare un “esercito” di manodopera a basso costo alternativa, e spesso sostitutiva, dei lavoratori “standard”, producendo quella flessibilità che, il più delle volte, si traduce in precarietà.

Occorrono forme di tutela nuove ed originali che si adeguino ai cambiamenti in atto e che tengano conto che saranno sempre meno coloro che lavoreranno per tutta la vita nello stesso posto di lavoro e che la maggioranza dei lavoratori cambierà sempre più spesso impresa se non addirittura mestiere.

Dovranno essere misure diversificate ed allo stesso tempo universali, fortemente ancorate alla tradizione di solidarietà ed uguaglianza che ha sempre contraddistinto il sindacalismo confederale italiano e che siano in grado di coniugare le “tutele con lo sviluppo” e i “diritti con la crescita”.

4. Le cause del lavoro precario

Il ricorso sempre più frequente nell’ultimo decennio a tipologie contrattuali alternative ai contratti di lavoro subordinato “standard” si è tradotto in quella “sensazione” sociale che viene comunemente definita con il termine precarietà.

Le cause di questo fenomeno, che ha determinato una profonda frattura all’interno del mondo del lavoro, sono da ricondursi all’uso improprio, distorto, elusivo e, soprattutto, prolungato nel tempo di queste forme contrattuali, con l’obiettivo di reclutare “forza lavoro” a basso costo e basso livello di tutele.

E’ pur vero che la “flessibilità” del lavoro ha contribuito al progressivo aumento del tasso di occupazione che ha interessato il nostro Paese negli ultimi anni prima della crisi, ma è altrettanto vero che, nella maggioranza dei casi, non si è tradotta in occupazione stabile e, soprattutto, in “buona occupazione”.

Inoltre la crescita dell’occupazione sostenuta dalla introduzione di sempre nuove forme di impiego non ha comunque contribuito ad una reale crescita economica del Paese e non ha migliorato, nel suo complesso, le condizioni del nostro mercato del lavoro, lasciando del tutto irrisolte le drammatiche differenze tra Nord e Sud e lo storico divario tra occupazione maschile e femminile.

Inoltre una eccessiva “precarizzazione” del mercato del lavoro non giova neanche al sistema produttivo che ha necessità del giusto equilibrio tra flessibilità e stabilità valorizzando le persone, la loro professionalità e più in generale il lavoro.

In questa ottica una riforma strutturale e “sistemica” del mercato del lavoro dovrà ricreare le condizioni per offrire, in particolare ai giovani, occasioni di impiego stabili e durature, riducendo contestualmente le situazioni di precarietà causate dall’abuso dell’utilizzo di forme di lavoro “non standard”.

Sarebbe, però, riduttivo limitarci a quest’analisi se non accennassimo al contesto in cui queste tipologie si manifestano: la metastasi del lavoro informale.

Accanto a queste forme, infatti, ve ne sono altre, appunto meno famose, ma altrettanto discutibili dal punto di vista delle eque tutele per il lavoratore: i tirocini (stage), i contratti in compartecipazione, il lavoro accessorio. Tipologie, anche legali nella forma, ma che non sempre, anzi quasi mai, rispondono agli scopi per i quali sono state introdotte nel mercato. Esiste, poi, chi di tutele non ne ha alcuna, sia perchè lavora in nero, sia per il suo status di clandestinità.

In questa ottica, grande attenzione va prestata alle fasce dei lavoratori più deboli, che sono i più colpiti in ogni tempo e non solo in tempo di crisi. Si tratta di donne, di giovani che si affacciano per la prima volta nel mondo del lavoro, di coloro che ne sono usciti e che hanno difficoltà a rientrarvi anche a causa dell’età (gli over 50).

Tra coloro che sono andati ad ingrossare le fila dei disoccupati, ci sono soprattutto lavoratori con contratto a termine, soprattutto a tempo determinato, ai quali alla scadenza non è stato rinnovato.

Ma di tale contratto se ne fatto un abuso, occorre, però, evitare che il tempo determinato si traduca in forme di “precarietà” e senso di insicurezza per tanti lavoratori. E’ quindi, auspicabile un cambiamento di rotta su tale istituto contrattuale nel senso di ridurne la portata ad esigenze aziendali caratterizzate dalla effettiva “temporaneità” delle prestazioni, quali le attività stagionali, assicurando nel contempo ai lavoratori reali tutele.

Non è d’altro canto impossibile immaginare, che accanto ad uscite più o meno traumatiche dal mondo del lavoro (pensionamenti, cessazioni, crisi aziendali pilotate o meno, riconversioni striscianti, scadenza di contratti a termine), l’insicurezza del sistema economico, nel prossimo futuro spingerà molte imprese ad utilizzare forme di ingresso nel mercato del lavoro “non stabili” o “nuovi strumenti” in quanto meno vincolanti e, soprattutto, meno costosi, con una forte contrazione del ricorso a contratti a tempo indeterminato.

Non meno preoccupante è il lavoro accessorio. Nato con l’intento di “inclusione” nel mercato del lavoro di alcune figure di soggetti deboli a rischio di esclusione sociale o non ancora entrati nel mercato del lavoro, o in procinto di uscirvi (quali ad esempio i disoccupati e i disabili) si è oggi trasformato, a seguito di varie modifiche legislative, in uno strumento per combattere il nero in tutti i settori produttivi, compresa la Pubblica Amministrazione.

Pagare una prestazione attraverso il voucher è, infatti, allo stato attuale, la modalità più conveniente per il committente/datore di lavoro, sia esso pubblico che privato, di “reclutare” personale: bassissimi contributi, inferiori anche ai contributi previdenziali della gestione separata; un costo orario lasciato alle parti; la mancanza per il lavoratore di diritti che un qualunque rapporto di lavoro gli conferisce. Inoltre il voucher è esente da qualsiasi imposta fiscale sia a carico del prestatore che del datore di lavoro, sancendo in tal modo il principio di poter svolgere attività di “impresa” e lavorativa senza pagare tasse.

5. Cambiare rotta

Ci domandiamo, si può governare e far cambiar rotta al nostro mercato del lavoro che sta andando alla deriva, con strumenti ordinari o con la (doverosa) estensione degli ammortizzatori sociali a chi non ne ha o ne è scarsamente tutelato? Solo parzialmente anche perché con la crisi rischia di rimanere, anzi ne uscirà incrementato, il divario tra chi sarà debole ma non indifeso di fronte alla crisi e chi, come è evidente, sarà soggettivamente più a rischio perché semplicemente non vedrà rinnovato il proprio contratto a termine.

Di fronte a questo scenario, ognuno deve e può fare la propria parte con coraggio e lungimiranza: imprese, sindacati e, ovviamente, il soggetto regolatore, il legislatore.

Quest’ultimo dovrebbe, innanzitutto, porsi la domanda se è opportuno continuare a rispondere al tema “competitività” mettendo a disposizione delle altre imprese strumenti e tipologie di rapporto di lavoro che dire flessibili è un eufemismo.

Ma allora, “come” e “dove” riorientare il nostro mercato del lavoro? Cosa fare per assecondare il bisogno di flessibilità, garantendo al contempo una sicurezza di tutele e diritti ai lavoratori? Occorre intervenire in maniera coraggiosa.

Il primo passo è investire in una buona flessibilità in ingresso, che sarà buona occupazione successivamente. Delle molteplici forme di ingresso esistenti, ne sono sufficienti due: il contratto di apprendistato ed il contratto di inserimento che uniscono percorsi formativi a momenti lavorativi, con la garanzia per il lavoratore, di tutele.

Tale seconda tipologia contrattuale può essere annoverata, infatti, tra quegli strumenti di flessibilità che meglio riescono, o comunque potrebbero riuscire con lacune modifiche legislative, a conciliare le fasi di passaggio da uno status all’altro, nonché permettere l’inserimento nel mercato del lavoro di particolari tipologie di soggetti che hanno difficoltà a trovare una occupazione (quali le donne, gli over 50, i disoccupati di lunga durata tra i 29 ed i 32 anni, i giovani tra i 18 ed i 29 anni e le persone affette da grave handicap). In sostanza i cosiddetti soggetti “svantaggiati”.

Il contratto di inserimento è uno strumento che andrebbe, però, rivisitato al fine di semplificare e migliorare l’accesso nel mondo del lavoro di soggetti che oggi, più di ieri, rischiano di restarne ai margini.

Una riflessione a parte merita l’inserimento nel mondo del lavoro delle donne. La loro partecipazione è, infatti, molto al di sotto della media europea, soprattutto perché non abbastanza sostenuta da politiche di conciliazione vita-lavoro. Gli alti tassi di inattività femminile, soprattutto nel Mezzogiorno, sono dovuti alla carenza delle cosiddette infrastrutture immateriali. Servono, quindi, politiche di rafforzamento di questi strumenti ad iniziare dal potenziamento degli asili nido, del tempo pieno nelle scuole dell’infanzia e dell’obbligo e dal rafforzamento dei servizi di assistenza alla persona. A fianco a ciò, è opportuno che nei territori si predispongano dei veri e propri “Piani regolatori degli orari delle città” che consentano una maggiore flessibilità di orario delle strutture sia pubbliche che private per permettere alle donne di potersi recare al lavoro senza l’assillo delle lancette dell’orologio.

Per le donne, andrebbe inoltre incentivato il contratto di inserimento, quale forma di ingresso nel mondo del lavoro anche per le giovani donne residenti in tutte le aree del Paese, non ricomprese tra le aree oggetto di aiuti di Stato, aumentando il limite di età dagli attuali 29 anni a 36.

Infine, con l’obiettivo di aumentare le competenze professionali del singolo lavoratore con contratto di inserimento che, non dimentichiamoci, rientra in una categoria svantaggiata, è necessario, secondo noi, ampliare le attuali ore previste di formazione sia teorica che pratica. Per far ciò e per avvicinare sempre più il sistema della formazione al mondo del lavoro, lo Stato e le Regioni si devono impegnare a destinare, in modo strutturale, alle imprese che utilizzino contratti di inserimento, adeguate risorse attingendo dal Fondo Sociale Europeo.

6. La riforma degli ammortizzatori sociali

A nostro parere il riordino del sistema dovrà definire una rete di sicurezze e di tutele universali indipendentemente dalle dimensioni di impresa, dal settore o dal contratto applicato, con l’obiettivo prioritario di rendere sostenibile la flessibilità e la mobilità, anche con il concorso delle imprese e degli Enti Bilaterali.

In questa ottica andrà necessariamente riqualificato e meglio attrezzato il sistema dei Servizi per l’impiego, che dovranno da un lato ricreare la centralità e la competitività del servizio pubblico e dall’altra rafforzare le sinergie con gli operatori privati.

Servizi pubblici ed operatori privati dovranno assicurare, sia attraverso opportune modalità di integrazione, sia direttamente che in competizione tra loro, la gestione delle politiche attive necessarie a determinare le condizioni di occupabilità ed inclusività del sistema.

Si tratta di agevolare e rendere effettivo un processo che realizzi in un unico servizio, supporto alla ricerca di lavoro, orientamento, offerta formativa e ricollocamento.

Un rinnovato sistema di ammortizzatori sociali si dovrà sviluppare su due livelli, non alternativi e che garantiscano, in una logica universalista, un adeguato sostegno economico ed un rapido reinserimento nel mondo del lavoro.

Accanto a politiche di riforma del sostegno al reddito vanno però contestualmente sviluppate politiche attive che favoriscano l’occupabilità e sviluppino le opportunità.

In questa ottica una ipotesi di riforma degli ammortizzatori sociali non può non essere accompagnata da un ripensamento del nostro sistema di formazione che riposizioni i propri obiettivi sulle “reali” esigenze dei lavoratori e delle imprese attraverso interventi di “formazione continua e personalizzata” collocati all’interno di una visione dinamica del mercato del lavoro.

7. Il Mercato del Lavoro, oggi

Dopo quattro anni di crisi e con la prospettiva di un 2013 che si preannuncia ancora di recessione economica, è necessario un piano organico per dare sostegno all’occupazione, in particolare con strumenti rivolti ai giovani, alle donne, agli over 50 e al reimpiego dei lavoratori in cassa integrazione e ai disoccupati, valorizzando, con le necessarie correzioni, gli istituti esistenti che promuovono ed incentivano il lavoro stabile. Contemporaneamente vanno ridotte e semplificate le altre tipologie di lavoro flessibile, armonizzando costi e tutele.

Nel contempo vanno assicurate le risorse per gli ammortizzatori sociali in deroga e successivamente va realizzato un riordino del sistema che permetta di assicurare in via ordinaria le tutele a tutte le dimensioni di impresa nei diversi settori e a tutte le tipologie contrattuali, in stretto collegamento con il rafforzamento delle politiche attive del lavoro.

Il 2 settembre scorso, Confindustria e Cigl, Cisl, Uil, con un forte senso di responsabilità, proprio sui temi dell’occupazione e della crescita, hanno concertato 3 realistiche e fattibili proposte, che vedono come assi le politiche industriali, la revisione degli assetti istituzionali ed efficienza della spesa pubblica ed il fisco.

Il Decreto “del Fare” presentato dal Governo Letta che contiene un pacchetto di riforme articolato da ben 80 articoli, a nostro avviso comprende molte novità positive che in parte, però, non sono incisive per un vero e proprio rilancio per il nostro Paese, hanno bisogno di essere associati da una politica economica più robusta. Un altro Decreto quello sul Lavoro, è previsto un secondo pacchetto di riforme, che intende adottare nuove misure per ridurre la disoccupazione e l’inattività dei giovani.

Con questo decreto arrivano primi e parziali segnali per dare risposte concrete all’emergenza occupazione, in particolare a quella giovanile. La decisione di destinare gli incentivi a tutto il territorio nazionale va nella giusta direzione perché punta a incrementare la base occupazionale. Il tutto, però, sconta una deregolamentazione del contratto a tempo determinato, che non sempre è un esempio di buona flessibilità in entrata nel mondo del lavoro. Già oggi il 70% delle assunzioni è a termine e, così, si continua a non garantire un futuro certo a migliaia di giovani. Avremmo preferito, piuttosto, che fossero maggiormente incentivati i contratti di apprendistato che, invece, rischiano di essere depotenziati.

Ci saremmo aspettati, inoltre, una risposta più forte al problema dei tanti over 50 che perdono il posto di lavoro. Si sarebbero potute utilizzare, ad esempio, risorse derivanti da una profonda ristrutturazione dei fondi UE, spesi attualmente in modo inadeguato e che, per i prossimi tre anni, ammontano a oltre 31 mld di euro.

Pur riconoscendo che questo Decreto costituisce un primo passo per dare risposte all’emergenza lavoro, va detto che da solo non basta. Occorrono misure strutturali per ridurre il carico fiscale sui redditi fissi: questa scelta aiuterebbe a rimettere in moto il Paese e a promuovere buona occupazione.

Dire che cambiando le norme della riforma del mercato del lavoro si creerà occupazione è sbagliato. Sicuramente le norme sul mercato del lavoro non creeranno posti di lavoro. Se si farà una riforma del mercato del lavoro comunque i posti di lavoro in Italia diminuiranno subito dopo perchè i posti di lavoro dipendono dalla politica economica che si fa o da quanti investimenti fanno le imprese. Il Governo dovrebbe sapere bene, grazie ai dati a disposizione del Ministero del lavoro, che nel 2010 – quindi, in un anno già caratterizzato da crisi economica – il sistema delle imprese ha dato comunicazione dell’attivazione di ben 10 milioni di contratti di lavoro delle più svariate tipologie: più di 800mila ogni mese, più di 25mila al giorno. E, purtroppo, si è registrato un numero simile di comunicazioni di cessazione di contratti di lavoro. Dunque, non c’e’ alcuna barriera ne’ in ingresso ne’ in uscita dal mercato del lavoro. Circa l’80 per cento di questi contratti e’ di tipo flessibile e solo una parte di essi e’ stata poi stabilizzata. Certo, la flessibilità buona può e deve essere incentivata.

Ma sarebbe bene evitare dichiarazioni che diano l’immagine, distorta, di un mercato ingessato.

8. L’attualità e proposte

Uno strumento che può aiutare ad uscire dalla recessione è la “strutturalità” nel tempo delle misure sperimentali di detassazione e decontribuzione per incrementi della produttività del lavoro.

La recente Legge 99/13 prevede un sistema di incentivazione volto a favorire l’assunzione a tempo indeterminato, di giovani di età compresa tra i 18 e i 29 anni in condizioni di svantaggio (di cui al Regolamento CE n. 800/2008). Si tratta, indubbiamente, di un primo intervento che va nella giusta direzione per combattere una disoccupazione giovanile. Ma si tratta di un provvedimento ancora parziale che dovrebbe essere accompagnato da misure strutturali per l’allargamento della base occupazionale e per la riduzione della pressione fiscale sui redditi da lavoro.

Per quanto riguarda l’incentivo alle assunzioni, però, e contrariamente al bonus occupazione SUD, non è prevista la clausola di salvaguardia (revoca incentivo), se negli anni successivi alla fine dell’incentivo non si mantiene la base occupazionale.

Abbiamo espresso, nel complesso, un parere positivo sulla riprogrammazione delle risorse europee sui temi del lavoro, soprattutto perché mirate all’aumento della base occupazionale e ad incentivare il contratto a tempo indeterminato.

Si tratta di rendere immediatamente spendibili le risorse previste nella Legge e, soprattutto, sarà importante programmare le azioni da intraprendere per dare continuità al “piano lavoro” per i prossimi anni, pianificando le risorse attuali con quelle previste dalla Yuoth Garantee.

Abbiamo indicato la necessità che, nel prossimo ciclo di programmazione, venga messa, quale priorità di spesa, il tema “Lavoro e Impresa”, temi su cui, congiuntamente, Confindustria insieme a Cgil-Cisl-Uil, hanno predisposto un documento di proposte volto a richiamare l’attenzione sulla difficile situazione economico-occupazionale in cui versa il nostro Paese, che può essere fronteggiata attraverso un efficace utilizzo dei fondi strutturali europei, sia del ciclo di programmazione ancora in corso, sia della nuova programmazione 2014-2020.

Nel documento, le Parti Sociali, evidenziano come la riprogrammazione dei fondi, costituisca un’occasione per rafforzare ed estendere la dotazione finanziaria del credito d’imposta per le assunzioni di giovani disoccupati previsto dalla Legge 99/13, ma anche per ottimizzare la destinazione delle risorse ancora disponibili in direzione di strumenti capaci di affrontare le situazioni occupazionali di maggiore criticità, in particolare con riferimento ai giovani oltre i 29 anni ed al reinserimento lavorativo.

Incentivare l’occupazione aiuta, ma insieme e contestualmente, occorrono misure volte alla crescita con il fine di creare nuovi posti di lavoro attraverso, ad esempio, il finanziamento delle opere infrastrutturali immediatamente cantierabili e politiche fiscali che, come si diceva, rimettano in moto il mercato interno.

Passando ai correttivi introdotti dalla recente Legge 99/13 alla Riforma del Mercato del Lavoro del 2012, non si può prescindere da una riflessione più generale.

L’incertezza normativa, dovuta ad un proliferare di norme che nel breve tempo si susseguono, sommano e sovrappongono una all’altra, non aiuta il nostro mercato del lavoro.

La creazione di nuovi posti di lavoro, ha necessariamente bisogno di un sistema produttivo che sia in grado di assorbirli, prima ancora che di leggi che modificano continuamente l’impianto normativo così come è stato fatto negli ultimi 2 anni, più o meno condivisibilmente, rispetto alle tipologie di accesso al lavoro.

Ecco perché continuiamo a dire che qualunque modifica agli strumenti del mercato del lavoro, anche la migliore, che sia volta ad incentivare buoni istituti di ingresso per i giovani, quale l’apprendistato, non si tradurrà in un aumento dell’occupazione se non sarà accompagnata da nazionali e sovranazionali politiche di sostegno alla crescita ed allo sviluppo economico.

Al netto di tale premessa sull’argomento, il ragionamento sugli strumenti di ingresso al lavoro deve passare per tipologie che, anche in un momento di crisi e di difficoltà ad assumere da parte del sistema produttivo, consentano ai nuovi assunti una base di tutele, diritti e possibilità di ricollocazione e stabilizzazione, anche in prospettiva di una uscita dalla crisi.

Ciò non significa necessariamente sole assunzioni con contratti standard, avendo ben presente il momento particolare che anche le imprese stanno vivendo, ma quantomeno orientare il nostro mercato del lavoro verso buone forme di flessibilità in ingresso che rispondano a 3 esigenze: la definizione di un rapporto di lavoro legato ad una oggettiva e transitoria esigenza produttiva, come il lavoro stagionale; favorire un avvio al lavoro profondamente legato al proseguimento di una attività formativa maggiormente legato all’azienda, ed e’ il caso dell’apprendistato; soluzioni di intervento a sostegno di tipologie incentivate dal punto di vista fiscale e previdenziale soprattutto per figure “deboli” ancor più fragili in una fase di grande difficoltà della nostra economia, a partire da giovani, ultra cinquantenni e donne, in particolare nel Mezzogiorno.

Di converso, sul fronte della tutela del lavoratore, a tale maggiore flessibilità, che diventa strutturale nel tempo, non fa da contraltare una maggiore sicurezza. Le modifiche che vengono apportate potrebbero creare un indomabile e potenzialmente non stabilizzabile popolo di lavoratori temporanei. Non ci convince, da questo punto di vista, la acausalità generalizzata.

Diverso sarebbe stato il caso in cui la Legge 99/13 fosse intervenuta lasciando unicamente alla contrattazione collettiva, anche aziendale, la disciplina delle deroghe alle norme generali di questo istituto.

Sul versante “apprendistato”, così come rilanciato anche dall’Europa con la “dichiarazione di “Lipsia” e con la carta europea “alleanza dell’apprendistato”, occorre valorizzarlo.

Si tratta di rivedere i criteri sulla “Carta degli Aiuti di Stato”, con la possibilità di rendere completamente decontribuito il contratto di apprendistato anche alle aziende sopra i 9 dipendenti, incentivi finalizzati alla sua conferma e alla formazione aziendale, anche con il contributo dei fondi interprofessionali.

Ricordiamo che sempre sul tema della crescita economica ed occupazionale, Confindustria insieme a Cgil-Cisl-Uil, hanno sottoscritto nel mese di febbraio un importante Accordo, in cui richiamano una comune volontà di valorizzare l’apprendistato in ragione della sua componente formativa.

E sempre nell’ottica di un investimento nell’acquisizione e ampliamento di conoscenze e competenze, le stesse Parti Sociali, al fine di favorire nei giovani la maturazione di scelte formative e professionali pienamente consapevoli, intendono valorizzare i percorsi di tirocinio e progetti di alternanza scuola-lavoro durante i percorsi di istruzione e formazione.

Si pone poi, l’esigenza di agire rafforzando i finanziamenti ITS (Istituti Tecnici Superiori), l’adeguamento del sistema dell’istruzione e il potenziamento dell’offerta formativa.

E se da tempo se ne parla, e si rimanda l’argomento, oggi non si può più attendere un processo di revisione e riforma del nostro sistema di domanda-offerta, troppo poco orientato ad intercettare il bisogno di inserimento e reinserimento lavorativo dei giovani e meno giovani.

Infine, in tale momento storico, in cui la disoccupazione giovanile ha raggiunto livelli elevatissimi, l’innalzamento dell’età pensionabile non ha sicuramente contribuito a facilitare il loro ingresso nel mercato del lavoro. L’aver procrastinato in generale l’età pensionabile, avrà un effetto sfavorevole per i giovani, per i quali le già difficili condizioni di ingresso al lavoro, saranno rese ancor più ardue dall’assenza di un turn-over generazionale. La “staffetta generazionale”, quale strumento di potenziale supporto ai giovani, non sta producendo risultati del tutto soddisfacenti, seppur nata con un buon intento. Occorrerebbe rendere appetibile a chi è in procinto di uscire dal mercato del lavoro, un sistema che colmi il gap retributivo che il meno giovane avrebbe acconsentendo alla staffetta generazionale, altrimenti il rischio è il solo utilizzo “parentale” dell’istituto. 009

[1] Dati Istat – Settembre 2013
[2] Dati Ministero del lavoro e della previdenza sociale
[3] Ibidem
[4] Il dilagare dell’austerità. Un errore dimostrabile, “Il Sole 24 ore”, sabato 3 luglio 2010

stampa

Il Punto del Segretario Generale

Ultime news