Incredibile, ma vero. Le cose sono andate realmente così.
Andrea Ichino è tra coloro che più hanno fatto il bello e il cattivo tempo sulla scuola negli ultimi anni; uno dei più agguerriti aedi della valutazione hard, fratello di Pietro, autore a sua volta di uno dei più colpevoli ed irresponsabili contributi alla delegittimazione della scuola pubblica, attraverso la creazione del mito del docente-fannullone, diventato luogo comune della percezione collettiva e del conseguente svilimento della nostra professione. Ichino è uno di quei bocconiani che hanno trovato la formula del successo mediatico aggredendo la scuola come fenomeno meramente economico; dimenticando chi c’è, cosa si fa, cosa si dovrebbe continuare a fare e perché lì dentro.
Autore con Daniele Checchi e Giorgio Vittadini di un documento che dette l’avvio concreto – su incarico di Gelmini – all’impervio percorso di un’idea muscolare di valutazione che quel ministro portò avanti (in ciò affiancata efficacemente dal collega Brunetta), proponeva di imporre a tutti la somministrazione delle prove Invalsi al fine di costruire un’anagrafe degli studenti che li seguisse nel loro percorso scolastico; soppressione del principio della valutazione di contesto; annullamento della competenza primaria dei docenti; inserimento nel mansionario degli insegnanti di voci non contrattualizzate; disprezzo di presupposti determinanti per l’impianto didattico-pedagogico della scuola italiana: tutto in nome di una presunta oggettività dei test.
Con l’atteggiamento risentito di chi si vede ora sfilare il gioco da sotto le mani, Ichino ha pubblicato qualche giorno fa un patetico intervento, in cui grida al complotto, rivela al mondo intero l’infida strategia di Carrozza: sottrarre agli economisti – badate bene, nientemeno che a vantaggio dei pedagogisti! – l’egemonia sull’Invalsi e sul tema della valutazione.
Che Carrozza abbia la vocazione da rivoluzionaria, non pare proprio. Piuttosto, in una delle rare azioni che testimoniano un minimo di sensibilità nei confronti della scuola, ha nominato un comitato di 5 esperti che dovrà selezionare la rosa di candidati per la presidenza dell’Invalsi, vacante dalle dimissioni di Paolo Sestito, il 4 dicembre. Gli esperti (nessuno, ovviamente, proveniente dal mondo della scuola; ma tutti universitari indubitabilmente prestigiosi e rappresentativi – Tullio De Mauro, Benedetto Vertecchi, Clotilde Pontecorvo, Cristina Lavinio e Giorgio Israel – dai quali possiamo aspettarci certamente onestà intellettuale, oltre che competenza scientifica), in realtà – ad onta di Ichino – non sono tutti pedagogisti. Insiste il nostro: la commissione di esperti è intenzionalmente composta da intellettuali che si sono spesi negli ultimi anni contro i test Invalsi; ecco, insomma, come – subdolamente – il ministro sta cambiando strategia nei confronti dei quiz standardizzati per la valutazione degli apprendimenti.
Ha replicato per primo l’unico pedagogista doc, Benedetto Vertecchi, con una circostanziata risposta, nella quale– così come altrove Tullio De Mauro – nega con argomentazioni inappuntabili che per la nomina del nuovo presidente dell’Invalsi vi sia un qualsivoglia orientamento prestabilito. Uno straniante senso di sollievo (a dire la condizione culturale in cui versa il Paese) hanno suscitato le parole di Vertecchi: “Quest’ossessione di parlare di competenze è una follia, perché non si può separarle dalle conoscenze. Vorrei che la scuola ritrovasse la sua autonomia e fosse in grado di esprimere una sua cultura, non quella che gli viene imposta dal mercato”. È possibile che – dopo anni di abbrutimento ragionieristico – chi avrà la responsabilità di determinare i criteri per la designazione del prossimo presidente Invalsi possa esprimere un’opinione così ricca culturalmente e politicamente? Tocca davvero a noi? Un brivido da centralità dei processi formativi e inclusivi cui non eravamo più abituati.
“Noi ci dovremo solo preoccupare che il nuovo presidente sia una persona competente e che abbia reale esperienza di ricerca valutativa, che abbia un’apertura ampia nei confronti dei sistemi educativi e uno sguardo di lungo periodo, e non solo sull’immediato. Non deve essere come un imprenditore che guarda solo ai risultati economici immediati, ma deve avere un’idea di cultura ampia e non precondizionata, che tenga conto delle diversità”.
È molto chiaro anche Giorgio Israel, che risponde inequivocabilmente ad alcuni giudizi apparsi su di lui e sul suo operato passato e futuro. So che questo non deporrà a dirimere gli evidenti preconcetti che si sono manifestati dal giorno dopo la nomina della commissione nelle menti dei mainstream. Chi – come me e come moltissimi altri – ha, però, ritenuto di non assumere una posizione iconoclasta nei confronti del tema della valutazione, ma ha scelto di informarsi, capire, approfondire, ha letto, studiato anche i testi di questi due pericolosi eversori: Israel e Vertecchi, appunto. Pertanto, quando il matematico (per la precisione, Ichino, si tratta sempre di Giorgio Israel) afferma: “Un vecchio, consunto, scorretto – ma evidentemente ancora ritenuto efficace – stratagemma per screditare è far credere che chi critica una particolare concezione della valutazione sia nemico della valutazione tout court” non dice altro che qualcosa su cui in molti, grazie anche a lui, siamo d’accordo.
Il punto sempre più evidente è che, dopo anni di egemonia di economisti di orientamento liberista sul tema della valutazione, retaggio di una lettura che considera la scuola esclusivamente dal punto di vista della ricchezza immediata che essa produce (e che pertanto ha ritenuto di poter tagliare drasticamente le risorse a suo vantaggio, essendo quel tipo di ricchezza nullo); che la considera declinandone le mansioni in termini di creazione di capitale umano, performance e produttività (che evidentemente non tengono conto di talune peculiarità che caratterizzano la scuola stessa), per la prima volta abbiamo a che fare con intellettuali che hanno posto al centro della loro ricerca il soggetto in apprendimento e che, di conseguenza, approcciano il tema della valutazione partendo da questo presupposto. La circostanza non dovrebbe sorprendere e non sorprenderebbe, se non fossimo nel pieno di un irrefrenabile ubriacatura di Pensiero Unico in chiave neoliberista, che ha agito in maniera irreversibile sul senso critico della coscienza individuale e collettiva del Paese.
L’augurio di molti di noi, insomma, è che la determinazione dei criteri per la presidenza dell’Invalsi possa costituire una buona occasione (oltre che per interrompere l’avvicendarsi di banchieri – come Cipollone e Sestito – su quella poltrona) anche per uscire dalle angustie culturali e metodologiche delle pseudo-semplificazioni neoliberiste e ricollocare il concetto e la procedura della valutazione in una prospettiva democratica, coerente con le finalità della scuola della Repubblica italiana, che non può essere oggetto di estimo contabile.