La riforma Gelmini sta suscitando un acceso dibattito, con prese di posizione e dichiarazioni troppo spesso dettate dal clima politico e non già da una reale volontà di approfondimento dei contenuti della riforma stessa. Stupisce in particolare l’uso, o forme meglio l’abuso di termini quali “baroni”, “merito”, “diritto allo studio”, “ricerca” e “parentopoli”, utilizzati senza la benché minima conoscenza delle norme appena passate alla Camera dei Deputati e della stessa situazione delle università.
Da parte nostra, non c’è alcuna intenzione di essere annoverati tra coloro che difendono questa università solo per il fatto di essere contrari ai contenuti di questa riforma. Come peraltro non vogliamo rinunciare a denunciare i mali attuali degli atenei e per questo essere considerati conseguentemente dei supporter del Governo. Pensiamo che il futuro dell’università meriti qualcosa di meglio di inutili schematismi e per questo abbiamo scelto, come sempre, di occuparci del merito dei problemi, fatto molto più importante e decisivo del colore politico dei governi che varano le riforme, cercando di fare una valutazione puntuale delle nome senza preventivi vincoli di appartenenza.
Questo documento è un piccolo vademecum utile a chi intende leggere la cosiddetta riforma Gelmini, nel tentativo di dare un senso concreto a concetti e parole d’ordine tanto sbandierate e al contempo assolutamente improprie.
MERITO!
Immaginiamo che chi parla tanto di “merito” sostenga la tesi della necessità di assumere e premiare solo i docenti migliori.
Immaginiamo che chi parla tanto di “merito” sostenga la tesi della necessità di assumere e premiare solo i docenti migliori.
Nel dettaglio, dovrebbe essere noto a tutti che, con il provvedimento in discussione, la struttura delle retribuzioni dei professori resta invariata, con automatismi stipendiali che per definizione non hanno attinenza alcuna con valutazioni del merito.
Sempre nel d.d.l. Gelmini è prevista una delega al Governo per la determinazione di risorse premiali. Al di là di una facile previsione sulla limitata entità delle risorse, la delega non da, di per sé, rassicurazioni sull’effettivo utilizzo delle premialità, almeno stando all’esperienza finora vissuta negli atenei per quanto riguarda i controlli sull’attività didattica esercitata. Già oggi infatti esistono fondi finalizzati al miglioramento della didattica e in favore dei docenti a tempo pieno, fondi che secondo quanto previsto dall’articolo 4 della legge 19 ottobre 1999 n.370 dovrebbero essere utilizzati “per l’incentivazione dell’impegno didattico dei professori e dei ricercatori universitari, per obiettivi di adeguamento quantitativo e di miglioramento qualitativo dell’offerta formativa, con riferimento anche al rapporto tra studenti e docenti nelle diverse sedi e nelle strutture didattiche, all’orientamento e al tutorato, e per progetti sperimentali e innovativi sul diritto allo studio proposti dalle regioni mediante programmazione concordata con il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca.”
Viste le attuali critiche al sistema universitario, è altresì evidente che tale incentivazione non ha prodotti finora risultati sperati. Per la stragrande maggioranza, queste risorse sono state attribuite ad ordinari ed associati (ricercatori esclusi) che in alcuni casi, nonostante il vincolo del tempo pieno, hanno tranquillamente continuato anche a condurre attività professionali fuori dalle università, poiché non esiste alcuna forma di controllo reale sull’effettiva presenza dei docenti neanche per l’orario dedicato alle lezioni. Aspetto quest’ultimo di estrema gravità, tutto svantaggio degli studenti, a cui la riforma universitaria non mette rimedio.
Al riguardo si evidenzia che il nuovo provvedimento lascia sostanzialmente intatti l’attuale impianto del regime di impegno (tempo pieno e tempo definito) della docenza e le relative norme sulle incompatibilità/compatibilità.
PARENTOPOLI! (come negazione del merito)
Molto si è detto sulle norme contro la “parentopoli” che affligge le università, vale a dire sull’uso ormai diffusissimo di attribuire incarichi di docenza, senza alcuna reale valutazione del merito, a mogli, mariti, fratelli, figli, nipoti, cugini,
zii e quant’altro nel medesimo ateneo. Fino a casi in cui è possibile ricostruire saghe familiari attraverso la mera lettura di organigrammi di facoltà, dipartimenti e cattedre. Questa indecenza è stata promossa e portata avanti da chi controlla oggi gli atenei e non già da studenti e ricercatori, vere vittime, insieme al Paese tutto, del decadimento del livello qualitativo delle università.
Mali tanto diffusi e pervicaci se si considera che oggi, nella stragrande maggioranza dei casi, mogli, mariti, fratelli, figli, nipoti, cugini, zii e quant’altro vengono assunti e fanno carriera inizialmente in altri atenei per poi far ritorno in quelli dove governa il familiare vero fautore della fulgida ascesa accademica.
Così va il mondo e chi ha una vera esperienza in materia sa benissimo che nel tempo il potere accademico ha sviluppato conoscenze e competenze proprio per aggirare limiti e vincoli, con buona pace di fervidi riformatori che non sanno o fingono di non sapere.
In questo senso facciamo notare come l’intervento di riforma, rendendo estremamente agevole la mobilità da ateneo ad ateneo, finisce per facilitare tali forme elusive delle norme che colpiscono la “protezione parentale” nella singola università.
A questo si aggiunge, beffardamente, che le ipotetiche norme contro le clientele familiari, da inserire nei futuri codici etici, saranno valide (ovviamente) per il domani e pertanto le “parentopoli” denunciate sino ad oggi saranno di fatto “sanate”.
Ancora. I famosi concorsi per garantire l’accesso solo ai migliori avverranno in sostanza attraverso la formazione di idoneità nazionali, che per chi ha memoria di quanto avvenuto nella scuola, tutto potranno avere meno che il carattere di selettività. Il successivo “concorso” a livello locale, al quale gli idonei dovranno sottostare, dovrebbe rendere l’idea del peso determinante che avranno le baronie.
Il nepotismo è figlio della cultura del potere baronale e non si combatte modificando le regole dei concorsi, ma obbligando il sistema ad essere trasparente. Il nepotismo si è sviluppato con i concorsi nazionali così come con i concorsi locali. La proposta di legge parla di codici etici da fare o di vincoli che renderebbero impossibile, di fatto, a due persone lavorare nella stessauniversità se hanno un grado di parentela sino al quarto grado. Una norma probabilmente incostituzionale, oltreché stupida: basti pensare a Pierre Curie che non avrebbe potuto chiamare sua moglie Marie Curie nella sua università.
Molto più efficace sarebbe imporre al sistema trasparenza obbligando i candidati ai concorsi a pubblicare il loro curriculum e a trasmetterlo a tutti gli altri partecipanti e non limitarsi solo a pubblicare i verbali delle commissioni, ovvero ad invocare questioni di privacy quando si vogliono conoscere i titoli presentati dai vincitori di concorso. L’unica possibilità per uscire da questa situazione è il controllo “sociale” che i candidati possono fare tra loro.
BARONI! (nel senso di LOTTA AI BARONI!)
Nel proseguire sul filone della “lotta ai baroni”, immaginiamo che coloro i quali ripetutamente sollevano questo argomento, intendano riferirsi ai docenti ordinari, al massimo della carriera e con la possibilità di ricoprire incarichi di direttore di dipartimento, preside di facoltà e rettore. Ovvero, quelli che hanno in mano tutte le leve del potere universitario.
Che cosa prevede la legge Gelmini? L’unica figura che rimane ed anzi vede aumentare i suoi poteri è il rettore, che per definizione è il barone tra i baroni. Non solo: il famoso Consiglio di Amministrazione, a cui la legge attribuisce significative funzioni, sarà comunque composto per la stragrande maggioranza da membri nominati sulla base di uno statuto universitario stilato dagli stessi docenti. Se ne deduce facilmente che i cosiddetti baroni, tanto vituperati dal Governo e dalla Gelmini, avranno, grazie alla legge di riforma, un controllo ancora maggiore sulle università.
Undici è numero massimo dei componenti del futuro CdA; sono stati vani i tentativi di modifica in seno al Parlamento, affinché si fosse tenuto conto di tutte le componenti universitarie. Ancora e sempre di più, la gestione delle università sarà totalmente indiscussa per mancanza di quel confronto democratico che attualmente viene praticato.
GOVERNANCE!
Governance, parola con cui gli addetti ai lavori più noti indicano il “sistema di governo”, concetto che sembra assumere chissà quale significato o rilievo per ilsolo fatto di utilizzare un termine inglese ripreso dall’economia (analoghe considerazioni possono in effetti essere fatte intorno al termine performance tanto caro a qualche Ministro…). In merito al sistema di governo universitario, il fatto più rilevante della riforma andrebbe rinvenuto nell’ingresso dei privati nelle università, questione su cui si concentrano diverse critiche per il presunto condizionamento della vita degli atenei e per la possibile spaccatura tra Nord e Sud, in considerazione dell’evidente differenziazione del tessuto economico e sociale del Paese.
Su questo aspetto, vorremmo mettere tutti a conoscenza che, attualmente, una della tante, troppe riforme del CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche) ha previsto l’attribuzione a Confindustria di un componente del CdA, carica che fu ricoperta la prima volta dalla Dott.ssa Bracco, notissima industriale farmaceutica ed autorevole esponente di Confindustria. Senza voler togliere nulla allo spessore ed alla qualità della persona, non risulta che il CNR abbia potuto beneficiare, nel periodo del suo mandato, di particolari vantaggi in termini di investimenti finanziari ed economici, né di un incremento delle capacità di reperimento di fondi per la ricerca dall’esterno e nemmeno di particolari progetti di interesse industriale, se non già quelli sviluppati nel corso degli anni precedenti.
Il testo della riforma Gelmini non prevede esplicitamente l’ingresso dei privati, infatti, l’ art. 2, comma 1, stabilisce che le università provvedano a “modificare i propri statuti in materia di organi”, ponendo una serie di vincoli e criteri direttivi tra cui, alla lettera i) la “designazione o scelta degli altri componenti (…) tra candidature individuate, anche mediante avvisi pubblici, tra personalità italiane o straniere in possesso di comprovata competenza di alto livello con una necessaria attenzione alla qualificazione scientifica culturale”. Personalità quindi esterne ai ruoli dell’ateneo. E’ lecito prevedere con un certo anticipo che la maggior parte di tali membri esterni nominati nel CdA saranno indicati da Comuni, Province e Regioni (quindi dal sistema dei partiti), ovvero da quelle istituzioni territoriali che, ad oggi, sono le uniche a fornire alle università delle risorse finanziarie aggiuntive a sostegno diretto oppure nella forma di sostegno al diritto allo studio.
Per non sembrare dei detrattori a priori della riforma, è bene effettuare alcune riflessioni sulla base dell’esperienza delle fondazioni universitarie, altra soluzione sbandierata come miracolosa e che avrebbe dovuto facilitare l’ingresso dei privati nella gestione della cosa pubblica. La famosa fondazione universitaria di Tor Vergata, creata per garantire il massimo dell’efficienza della sanità universitaria, vede la presenza nel Cda del Presidente della Regione Lazio nella veste di Presidente della fondazione, nonché del Magnifico Rettore dell’università. Inoltre la Regione sceglie un altro componente che guarda caso è l’allora assessore alla sanità e l’università indica un altro componente che guarda caso è un docente ordinario (un barone!?). Si deve inoltre aggiungere che i 4 soggetti scelgono il quinto componente (quasi un amministratore delegato) che anche qui, guarda caso, è il Direttore Generale del Policlinico di Tor Vergata. Il tutto senza, ovviamente, alcuna incompatibilità. Ma i privati dove sono? I soldi che fanno vivere la fondazione sono sicuramente pubblici.
Nel frattempo, si discute intorno all’ipotesi di creare una fondazione per l’Ateneo Roma Tre. Anche qui, illustrando le notevoli opportunità che potrebbero favorire lo sviluppo dell’ateneo e magnificandone le fulgide sorti, attualmente la discussione ha per oggetto, molto più prosaicamente, l’incarico di Presidente della Fondazione e se questo debba essere ricoperto dal Rettore pro tempore, oppure si debba procedere alla nomina del Rettore uscente, dopo appena (ci sembra) 16 anni di mandato!
In entrambi i casi, queste fondazioni al momento restano finanziate da fondi pubblici e servono, in buona sostanza, ad assumere personale senza concorso pubblico (a proposito di merito e baroni…). Sulle regole in materia di appalti gestiti ci asteniamo da ogni commento. Ne deduciamo che il modello delle fondazioni si sta rivelando come il solito caso di “privatizzazione all’italiana”.
Sempre in materia di “privatizzazione” anche dal recente varo della “legge di stabilità” si conferma il forte impegno del Governo nei confronti degli atenei privati. Ciò nel momento stesso in cui vengono tolte risorse indispensabili a quelli pubblici.
Anche su questo aspetto precisiamo che non abbiamo preclusioni ideologiche verso lo sviluppo di una rete privata di alta formazione. Facciamo però notare che se la nuova competizione sulla qualità avviene mettendo a confronto un sistema pubblico lasciato progressivamente degradare agli infimi livelli con una realtà privata sempre più potenziata, quest’ultima assume un carattere “sostitutivo” che non favorisce la diffusione delle opportunità formative tra i giovani migliori seppur appartenenti ai ceti sociali più deboli e certamente non aiuta la crescita qualitativa del sistema.GIOVANI e PRECARIATO, GIOVANI e DIRITTO ALLO STUDIO
Chi è favore del d.d.l. Gelmini e chi è contro usa l’argomento dei giovani in modo strumentale alla propria tesi.
Chi è favore del d.d.l. Gelmini e chi è contro usa l’argomento dei giovani in modo strumentale alla propria tesi.
Oggi nell’università “giovani” è sinonimo di “precari”. Sono decine di migliaia i giovani che lavorano nella ricerca e nella didattica con contratti a tempo determinato (pochi), con collaborazioni sottopagate (tanti), con assegni di ricerca e anche con borse di studio che contrariamente al loro significato servono per truccare, anche in questo caso, un lavoro sottopagato. Decine di migliaia che, ovviamente, non hanno possibilità di essere tutti assorbiti dall’università: il solo far intendere il contrario è pura demagogia. La cosa che più sconcerta del d.d.l. è che, se da un lato pone dei limiti ai contratti a tempo determinato per ricercatore (max 8 anni) – rischiando di mettere fuori centinaia di ricercatori che hanno superato questo limite -, dall’altro lascia invece completamente libera la giungla dei contratti di insegnamento che, probabilmente, si configureranno come contratti di collaborazione, con retribuzioni diverse da ateneo ad ateneo e per un tempo indefinito, alimentando un precariato strutturale sempre meno garantito e sempre più sottopagato visto le condizioni economiche in cui versano le università.
Per altri versi, non è peregrino pensare che questi contratti d’insegnamento (al cui numero non c’è limite anche nel caso d’esubero della docenza di ruolo) siano (e potranno esserlo sempre di più) utilizzati per “parcheggiare” in attesa del “posto stabile” i soliti: mogli, mariti, fratelli, figli, nipoti, cugini, zii e quant’altro, di cui sopra.
Va sottolineato, inoltre, che il testo del d.d.l. mette di fatto ad esaurimento la figura del ricercatore a tempo indeterminato. In assenza di correzioni, questa previsione (da molti banalizzata oppure intesa come un fatto corporativo) determinerà a regime una diminuzione dell’organico di circa 25.000 unità che oggi fanno ricerca e didattica nella quasi totalità dei casi. A proposito di giovani, poniamo solo una domanda: se l’organico diminuirà di 25.000 unità, perché sarebbe più facile per un giovane l’accesso alla carriera universitaria? La domanda è ovviamente retorica, ma da sola fa capire quanto sia fasulla la tesi di chi sostiene che il d.d.l. Gelmini favorisca i giovani.
Il diritto allo studio è, a sua volta, un argomento molto usato da chi vuole sostenere che occorre investire sui giovani riconoscendo il merito con adeguate forme di sostegno. Noi condividiamo totalmente questa affermazione. Ci permettiamo però di sottolineare che, fermo restando tutte le più rigorose modalità di selezione utili a premiare gli studenti più meritevoli, quello che più conta sono i finanziamenti.
Oggi, mentre si parla di modificare strumenti e procedure per garantire ai migliori il sostegno allo studio, è stato comunicato che non verranno erogate né l’ultima rata delle borse di studio dell’anno 2010, né le anticipazioni delle borse del prossimo anno. I giovani interessati si troveranno nella delicata situazione di gravare totalmente sulle spalle delle famiglie. Se queste non saranno in grado di sostenere tutte le spese, il rischio per questi ragazzi, anche se bravissimi, è di dover rinunciare agli studi per una mera questione economica. Ogni commento è superfluo.
Il nostro giudizio sui contenuti del d.d.l. è quindi negativo perché non affronta i veri problemi dell’università. Essere contrari al d.d.l. Gelmini non vuol dire difendere l’università così come è. La nostra opinione è che proprio la proposta di legge del Ministro lascia immutato il sistema solo con meno soldi.
Per questa ragione la UILPA Ricerca Università AFAM ha portato e porterà le bandiere in piazza contro questa legge.
La Segreteria Nazionale