Oggi sono qui, nella mia organizzazione, ma sono anche in mezzo alle donne delle associazioni femminili che sono scese in piazza come “Non una di meno”, un movimento che ha scelto uno slogan molto efficace: “se non valgo non produco e non riproduco”. Le reti di associazioni femminili in 22 paesi del mondo hanno voluto porre l’accento su come sarebbe il mondo se le donne si fermassero.
Oggi mi sento anche in mezzo a loro perché lì come qui ci sono donne che combattono contro tutte le violenze, nella vita privata e nel mondo del lavoro.
E’ ormai ben noto che a livello nazionale ed europeo i lavori meno pagati e meno tutelati continuano ad essere svolti da donne; sappiamo che le donne lavorano mediamente più ore ma hanno una retribuzione più bassa anche del 25%. Inoltre, le donne lavorano anche in maniera più discontinua, e perciò le pensionate hanno pensioni mediamente più basse di oltre il 40% rispetto agli uomini.
E’ un serpente che si morde la coda: per superare il gap stipendiale sono necessarie agevolazioni in materia di assistenza e cura familiare, ma soprattutto è necessaria una partecipazione piena e continua alla vita lavorativa, senza buchi contributivi.
Quindi, per superare il gap pensionistico ci vogliono lavori stabili sin da giovani e contribuzioni regolari.
Ma per avere lavoro stabile e regolare e non avere interruzioni nei periodi lavorativi, ci vuole una vera parità di genere e un welfare che funzioni.
Precisiamo subito una cosa: la parità deve essere considerata uno strumento. La parità non è l’obiettivo, è il punto di partenza.
Eppure, quando se ne parla c’è sempre qualcuno che dice: “ancora parliamo di parità? Ma se facciamo la spesa insieme, cuciniamo a turno, ci alterniamo nel prendere i figli a scuola …”.
Il primo ostacolo è proprio questo: pensare che la parità di genere sia ormai raggiunta è il “nuovo pregiudizio”. I nostri compagni quando collaborano non devono pensare che lo fanno “per noi”, devono pensare che “è normale”! E che i pesi del lavoro domestico e di cura vanno riequilibrati tra i generi.
E’ importante essere tutti consapevoli che finchè non ci sarà vera parità non ci saranno pari condizioni di lavoro nè di retribuzione. Non basta “avere un lavoro” per poter affermare che la parità si è realizzata: le donne hanno sostituito gli uomini in tempo di guerra in tutte le attività ed al rientro dei mariti sono state di nuovo relegate in cucina!!
La battaglia più ardua per raggiungere la parità è combattere i pregiudizi, in casa come sul lavoro: ad esempio il pregiudizio che la maternità è un problema, o che le donne vanno bene per tutto meno che per dirigere, o che quando le donne lavorano insieme finiscono per litigare!
E’ vero, le donne a volte fanno casino e formalmente offrono il fianco: ma ho visto attacchi portati da uomini, nei corridoi, senza urlare e senza prendersi per i capelli, ed erano attacchi ben più feroci!
Io ho scelto di non attaccare mai una donna, a costo di mordermi la lingua a sangue, perché voglio fare la differenza e voglio dimostrare che come donne siamo in grado di esercitare ogni ruolo, se ci viene data la possibilità.
Purtroppo i dati nazionali ed europei confermano che il posizionamento delle donne ai vertici dei sistemi se aumenta, aumenta con troppa lentezza, mentre il differenziale salariale se si riduce, si riduce con altrettanta lentezza.
E’ di ieri la pubblicazione di una ricerca fatta dalla UIL di Roma e Lazio, che è in linea con la media nazionale, secondo cui lo scarto di genere si riduce di un punto ogni 5 anni, soprattutto grazie alle quote rose ed al sostegno all’imprenditoria femminile.
Il dato interessante è che a questo ritmo, per arrivare ad azzerare il pay gap sarebbero necessari 200 anni!!! C’è bisogno di ulteriori motivazioni per capire l’urgenza di piani concreti?
Per risolvere il Pay Gap anche l’Europa predica bene e razzola male.
Per esempio, ha imposto di andare in pensione più tardi (come età anagrafica) per garantire alle donne pensioni migliori, in quanto le retribuzioni di solito sono più alte a fine carriera.
Poi però l’assenza di welfare ci ha costretto, qui in Italia, a lottare per ottenere la cosiddetta “opzione donna”, che consente sì di andare in pensione prima, ma al prezzo di pesanti decurtazioni sulla pensione, decurtazioni che sono addirittura maggiori rispetto a prima! Ma che senso ha?
Sappiamo che le donne investono di più in istruzione, e che il numero delle occupate in possesso di laurea è maggiore rispetto agli uomini. Eppure, il differenziale di reddito tra Donne e Uomini resta alto anche in professioni di elevata qualificazione!
Emerge da ogni rilevazione che il sistema economico trae profitto dalla discriminazione delle donne. Si deve invece smettere di fare risparmio sulla pelle delle donne.
Nel Pubblico Impiego le donne sono il 55%; hanno quindi raggiunto la cosiddetta “parità orizzontale”: ma non le ritroviamo nella stessa percentuale ai vertici, anzi le troviamo spesso relegate a ruoli marginali.
Nella relazione che ho proposto l’anno scorso alla V assemblea delle donne (che trovate sul sito confederale) evidenziavo alcuni dati nei settori a forte prevalenza femminile.
I dati sono in aggiornamento, ma sono molto significativi e ve li ripropongo.
Nelle università le donne sono il 57% del personale amministrativo, il 45% tra i ricercatori, il 28% tra i professori associati e solo il 20% tra gli ordinari. La forbice si allarga a seconda se il settore disciplinare di riferimento apre le porte non solo a più potere accademico ma anche a più potere economico (ingegneria, architettura, medicina…). Ai vertici troviamo pochissime donne Rettori o Direttori Generali, che costituiscono rare eccezioni in un mondo saldamente in mano agli uomini.
Nella scuola le donne sono quasi l’80% ma raggiungono a mala pena il 54% se si guarda alle posizioni dirigenziali. Nella sanità le donne (fonte MEF) al 2011 erano il 70% del personale non dirigente; tra i medici la percentuale scende al 38%, ma tra queste solo il 14% ha incarichi di direzione. Nelle aziende sanitarie ospedaliere solo 28 direttori generali sui 254 presenti erano donne nel 2013 (Forum PA). Negli enti di ricerca le donne sono il 43,8 % rispetto agli addetti del comparto; la stessa proporzione però non si ritrova nè ai vertici politici, né nelle assegnazioni degli incarichi, nè ai massimi livelli contrattuali e di carriera – che sono influenzati dalle pubblicazioni e dagli incarichi (fonte MEF).
Bene, oggi ci viene chiesto anche di fare proposte per superare le disparità: provo a farne qualcuna.
1. Bisogna combattere gli stereotipi e i pregiudizi: donne e uomini possono fare tutto uguale, a tutti i livelli, fuori e dentro casa; l’assistenza familiare non “spetta” alle donne, la maternità non è un problema delle donne ma – se problema è – riguarda tutta la società.
Però per combattere gli stereotipi è indispensabile perseguire senza sosta la formazione alle differenze di genere, perché senza cambiamento culturale non c’è progresso.
2. L’accesso al lavoro deve essere garantito senza discriminazioni, e per fare ciò ci vuole il rigoroso rispetto delle quote rosa, partendo dalle commissioni di concorso (per avere un diverso approccio alla valutazione) e passando per ogni incarico, fino ad arrivare alle stanze dei bottoni, alle Presidenze delle istituzioni. A mio avviso è sbagliato pensare che senza quote rosa si ottengono gli stessi risultati.
3. La previdenza complementare è da molti pensata come un sostegno ormai indispensabile con cui attrezzarsi per il futuro. Ma non è facilmente accessibile per chi ha lavori a bassa retribuzione o lavori discontinui nè può permettersi di mettere da parte per “domani” somme anche piccole ma indispensabili per la sopravvivenza quotidiana. Va resa accessibile, trasversale con fondi comuni, garantita. Vanno trovate soluzioni tecniche ma soprattutto politiche per recuperare i risparmi che il lavoro delle donne produce e che sono conseguenza delle scelte fatte a scapito delle donne in passato.
4. Per garantire valutazioni adeguate al genere, devono essere adottate valutazioni con “medie standard” se c’è stata una capacità lavorativa ridotta a causa del lavoro di cura. Per esempio, se ho fatto meno pubblicazioni, meno ricerca o sono stata costretta a fare più part-time perchè sono diventata mamma. La valutazione impostata sulle “medie standard” andrebbe prevista sia nelle assunzioni che per le progressioni di carriera.
5. Vanno create condizioni per l’incremento del welfare: i nonni devono godersi i nipoti senza essere costretti a sopperire ad asili e scuole che sono sempre meno e sempre più cari, e quindi meno accessibili a coppie sempre più povere. Le famiglie devono poter contare su case di riposo o su assistenza domiciliare per anziani senza dover sacrificare le donne obbligandole a part-time o a pre-pensionamenti onerosi.
La fuga dei cervelli e la decrescita della natalità non si fermeranno finchè assicureremo alle giovani donne e uomini “di eccellenza” condizioni di vita e di lavoro tali da potersi permettere una famiglia.
Tra i precari nei miei settori UIL RUA il numero delle donne altamente qualificate è altissimo, perché le donne sono quelle che investono di più in istruzione e formazione: se nel triennio 2018-2020, spingendo sulla riforma del testo unico del pubblico impiego, non riusciremo a stabilizzare il più possibile assegnisti, cococo, tempi determinati, avremo fatto fuori almeno un paio di generazioni prevalentemente femminili che lavorano come precarie da 15-20 anni senza aumenti, senza progressioni di carriera, magari costrette ad accettare il part-time pur di non uscire dal sistema.
6. Si parla spesso di “welfare aziendale” anche per il pubblico impiego, da prevedere nei contratti nazionali. Ma come la previdenza complementare, anche il welfare non può essere considerato un “costo” che incide e diminuisce le risorse disponibili per il rinnovo contrattuale!
7. Non ci può essere parità tra uomini e donne se non si riprende a creare lavoro.
L’apparente diminuzione delle distanze salariali che emerge tra D e U negli ultimi anni è dovuta più alla perdita di lavoro tra gli uomini che alla impennata di nuovi lavori tra le donne.
Nessuna crisi però può giustificare un arretramento rispetto alle consapevolezze acquisite. Per questo ritengo che il rispetto delle differenze di genere vada perseguito sin dal primo ingresso nel mondo del lavoro.
8. Infine, qualche proposta anche in casa nostra: facciamo funzionare questo Coordinamento CpO, perché è anch’esso uno strumento per realizzare la parità. In particolare noi, sindacalisti/e della UIL, dobbiamo impegnarci per una vera parità di genere ad ogni livello della nostra organizzazione.
A Carmelo riconosco il merito di aver accresciuto la partecipazione delle donne nella vita dell’organizzazione, aumentando il numero delle donne negli organismi: ora però bisogna riconoscere loro il ruolo. E ciò è possibile solo se, parafrasando lo slogan della UIL per il tesseramento, “dietro ogni donna UIL c’è tutta la squadra UIL”! Grazie a tutte.
Intervento Sonia Ostrica