A meno di un’inversione di marcia dell’ultimo minuto, nell’anno che verrà la spesa pubblica per la cultura rischia di subire in Italia un’ennesima contrazione, con tagli di dimensioni tali da trascinare l’asticella dei finanziamenti al posto più basso nell’intera storia del secondo dopoguerra.
Ci dicono, da troppo tempo, che questa scelta è obbligata, in quanto gli effetti della crisi richiedono drastiche rinunce a tutti i settori compreso quello della cultura. Ma non è così. L’esempio è dato dagli altri Paesi dell’Europa, che pure devono affrontare una crisi di entità peggiore della nostra, dove le strategie governative hanno penalizzato la cultura il meno possibile, limitando i tagli al minimo indispensabile.
Il dato della spesa pubblica destinata dal Paese alla cultura: appena l’1,1% del Pil contro il 2,2% medio dell’Ue e all’ultimo posto in Europa dietro anche alla disastrata Grecia che spende l’1,2% del Pil.
Una dimostrazione del potenziale del sistema culturale del Paese Italia (per l’Unesco l’Italia detiene il più alto numero al mondo di beni patrimonio dell’umanità) con la capacità di reagire allo strangolamento economico si trova nella comunicazione obbligatoria del Ministero del Lavoro, su assunzioni e cessazioni pubblicate di aprile, che riporta una tabella con le prime dieci qualifiche professionali per le quali sono stati attivati più contratti nel quarto trimestre del 2012. Ebbene, sorpresa: nella tabella che riguarda gli uomini al terzo posto ci sono “registi, direttori artistici, attori, sceneggiatori, sceneggiatori e scenografi”, con la bellezza di 47.065 contratti, più dei cuochi, dei facchini, dei commessi e dei muratori. Come se non bastasse, all’ottavo ci sono compositori, musicisti e cantanti con quasi 21.000 nuovi contratti di lavoro.
Chiedere, pertanto, più investimenti per la cultura non è un capriccio insensato di qualche artista fuori di testa ma la dimostrazione che la Cultura è anche lavoro: una realtà che fa fatica evidentemente a farsi strada nelle menti di chi ci governa.
I dati sono lì a dimostrarlo visto che, nel complesso, il macro-settore dell’industria culturale e creativa fattura più del doppio dell’industria automobilistica e crea posti di lavoro anche in momenti recessivi dell’economia come questo che stiamo vivendo.
Investire in cultura non è uno spreco inutile ma una scelta dettata dal riconoscimento che la cultura dovrà giocare un ruolo fondamentale nel definire un nuovo modello di sviluppo che permetta all’Italia di uscire dalla crisi con successo.